IL NATALE DEL VILLAGGIO

  IL NATALE DEL VILLAGGIO

 (A ZONZO PER LA MEMORIA)

di Pasquale Balestriere

 

S’annunciava così il Natale dell’infanzia: con freddi intensi e lo sperone innevato dell’Epomeo a pungere l’azzurrità del cielo. Oppure con piogge lunghe, interminabili, che chiudevano in casa bambini desiderosi di giochi all’aria aperta.

Il piccolo borgo di Buonopane, accovacciato in un semicerchio di colline, svolgeva tranquillamente la sua vita contadina.

Nel secondo dopoguerra i campi -nonostante l’accentuata emigrazione- pullulavano di persone intente al lavoro: a dicembre, intorno alle viti semispoglie, cominciavano i gracchi e gli scatti (“azzecchi” e “schiocchi” li definisce il Pascoli) delle forbici da pota;  il contadino ritardatario  “faceva le fratte”, cioè scavava con la zappa buche nel terreno allo scopo di captare acque preziose. Le donne raccoglievano erba per i conigli e  legna per il focolare, che dava cenere per concimare le cipolle e brace per alimentare il braciere, intorno al quale si riuniva tutta la famiglia nelle fredde sere invernali; e che, nelle occasioni importanti, profumava la casa se si ponevano sulla brace pezzetti di pigna o d’incenso, o semplicemente bucce di mandarini o d’arance.

In prossimità della nascita del bambinello,  quasi come in un rito pagano,  cominciavano i sacrifici: del maiale, per esempio, che doveva immolarsi per garantire una certa riserva di cibo  per l’inverno: salato, sotto aceto, trasformato in salumi (capocollo, salsicce, prosciutti,  soppressate, ecc.), in ciccioli (‘e cìculë), in lardo, in sugna, in sanguinaccio. E tra amici stretti e parenti ci si scambiava” ‘u ségnë ‘e puórchë”, cioè il segno (dell’uccisione) del maiale, consistente in vari assaggi  dei prodotti ora citati, ma in particolare delle carni. Va notato che l’acquisto e l’allevamento del maiale indicava, in quei tempi di povertà, un minimo di benessere economico. Anche i bambini erano ammessi alla movimentata e cruenta operazione, ma stando a debita distanza e solo come spettatori. A uno solo di loro, generalmente più grandicello,  si concedeva il privilegio di tener ferma… la coda del porco. Il lettore sorriderà, pensando che si trattasse di un’azione inutile, perché quell’appendice dell’animale non poteva in alcun modo creare problemi o pericoli per quanto si agitasse disperatamente. E invece la cosa aveva un senso: era  una sorta di iniziazione con relativo atto di coraggio, il primo passo del fanciullo nel ruvido e poco includente  mondo degli adulti.

L’altra vittima predestinata in tempi natalizi era il gallo (‘u capónë), il quale, nel corso della sua non lunga vita, ad ogni chicchirichì  suscitava  un ironico commento a forma di proverbio: “Canta capónë ca Natalë vènë”, cioè canta pure, gallo, che prima o poi arriva  Natale.

Chi non aveva la “ricchezza” del maiale  e nemmeno la disponibilità di un gallo si accontentava del coniglio di fosso, da sempre generoso con il suo allevatore. Al mezzogiorno della vigilia si “faceva l’ottonzë”(otto once, circa 250 grammi), si consumava cioè un pasto leggero a base di baccalà fritto. Di sera  invece  il primo (povero) piatto era spesso costituito da vermicelli con le noci o “cu ‘e fiurillë”, cioè con i gallinacci e cantarelli, gli unici funghetti che si potevano ( e si possono ) trovare nei boschi dell’isola d’Ischia a dicembre. Erano lontani e inavvicinabili, per motivi pecuniari, capitoni, gronghi, murene e le varie fritture miste. Anche se, a dire il vero, qualche raro esemplare di grongo o murena “saliva” fino a Buonopane, oggetto di baratto natalizio tra pescatori e contadini legati da amicizia e da parentela.

A pochi giorni dal Natale, se non addirittura alla vigilia, si preparavano, sempre in casa,  i dolci tradizionali: panettone, roccocò, susamielli, poi i mustaccioli; ed anche i liquori dopo aver acquistato, di contrabbando, l’alcol  e, nelle botteghe,   i “sensi”, cioè i concentrati ( essenze o estratti) aromatici del gusto preferito.

Quando il tempo aveva ancora ritmi lenti -diciamo negli anni Cinquanta/Sessanta- l’avvicinarsi del Natale, che ancora nei piccoli paesi era avvolto da misticismo religioso, veniva scandito da due momenti che ne creavano l’atmosfera: le novene, con i loro canti gioiosi, e la preparazione del presepe.

Si cominciava con la novena dell’Immacolata e poi, dal 16 dicembre, si proseguiva con quella di Natale. La chiesa, in queste circostanze, era molto frequentata, certamente più del normale. I canti erano guidati da uno degli organisti del paese, che in quel periodo erano Ottavio Di Meglio e l’insegnante Salvatore Di Meglio, che si avvalevano del necessario supporto di un paziente e forte Giovan Giuseppe che “tirava i mantici”, cioè girava la manovella per alimentare, appunto, i mantici dell’organo. Naturalmente dopo aver ben collaborato a  impastare manualmente intere “màttërë” (madie) di farina ed aiutato ad infornare centinaia di pagnotte nel forno di famiglia che serviva tutto il paese.

La preparazione del presepe era l’altro momento significativo. Il presepe, non l’albero di Natale, che qui è arrivato dopo, dalle nevi ghiacciate del nord dell’Europa.

Si iniziava con la ricerca e la raccolta delle “réppulë”, cioè di muschio e di selaginella, per fare il tappeto del presepe; e, prima ancora, ceppi di canne, pezzi di rami, cartoni e materiali vari per costruire il paesaggio. Nell’ultima fase si posizionavano i “pastori”. Spesso al presepe lavorava tutta la famiglia.

Ma le feste natalizie si portavano appresso, per la gioia non solo dei bambini, un piccolo corredo di giochi. Con le nocciole, per esempio: le ragazzine “alla fossa”, cercando i far rotolare le nocciole in una fossettina a colpi di “pizzico”, cioè incrociando pollice e indice e facendo scattare il pollice che colpiva la nocciola con la forza necessaria perché questa si imbucasse;  i ragazzini invece si divertivano “a castilletto”, cioè disponendo ognuno quattro nocciole a castello e cercando, con una nocciola più grossa, di colpire i castelli, allineati, da una certa distanza. Gli adulti invece, nelle lunghe sere festive, amavano giocare a tombola (le donne), a carte (gli uomini).

Passava così il Natale d’una volta. Naturalmente con una tavola ricca di cibi (una tantum!) e la classica lettera  fitta di promesse (da marinaio) dei figli sotto il piatto del papà. E già dopo pranzo i bambini lanciavano l’assalto al bambinello di zucchero che ognuno di loro aveva avuto in dono: chi cominciava a mordere dalla testa, chi dai piedi. E qualcuno, per farlo durare più a lungo, succhiava delicatamente.

Oggi? È un Natale piuttosto diverso ai miei occhi di adulto. Ma a quelli dei bambini di oggi forse questa festa appare come appariva a me tanti anni fa, con la magia, l’allegria e il miracolo che accompagna ogni nascita.  Certo, al presepe si è aggiunto l’albero, qualche canto natalizio di un tempo è stato sostituito da altri più moderni; il maiale viene ucciso in vari periodi dell’anno, e il pollo si può anche comprare facilmente, e magari è sostituito dal tacchino. Forse non si gioca più con le nocciole e non si porta il bambinello per le case, ma non sono sparite le cerimonie religiose e alcuni canti intramontabili conservano  il fascino di un tempo. Nel presepe i pastori sono più nuovi e più numerosi, e c’è più illuminazione natalizia per le strade, e di giorno, nei campi, gracchia sempre qualche forbice che trancia e cima i rami delle viti, mentre a casa ancora tante donne preparano i dolci tradizionali. E, dopo un periodo di assenza, sono pure ritornati gli zampognari.

Sì, lo possiamo dire: nel paese di Buonopane, dove  ancora si respirano fragranze di mosto e profumi di vino, dove si esegue e si tramanda la famosa ‘Ndrezzata, dove la tradizione si conserva anche nell’acqua di Nitrodi, antica e gloriosa,  e nella grande quercia di Candiano, la festa del Natale, sia pure con qualche fatica,  mantiene non solo il suo fascino di evento spirituale, ma anche la carica vitalistica di festa della tavola, ricca come in nessun altro periodo dell’anno.

E ancora oggi, nei freddi decembrini,  lo sperone innevato dell’Epomeo punge, caparbio, l’azzurro del cielo, mentre le campane annunciano quella che per tanti è ancora la festa delle feste.

Pasquale Balestriere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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10 risposte

  1. Bellissima rievocazione, caro Pasquale. Ho rivissuto i tempi della fanciullezza, della nostra fanciullezza, e vorrei che questo tratto della vita paesana fosse ricordato alle generazioni attuali e future attraverso una stampa durevole, magari su ceramica, da affiggere sulla parete esterna della sede della danza ‘Ndrezzata.
    Raffaele Di Costanzo

  2. Ricevo e pubblico:
    Ciao, Pasquale, ho letto “Il Natale del villaggio”, bellissimo racconto ricco di suggestioni e ricordi anche per me che sono arrivata a Buonopane in tempi più recenti. Ora lo spedisco anche a Franco che ti segue sempre.
    Buon Natale a te e famiglia
    Mariolina

  3. Ho letteralmente assaporato questa tua rievocazione-descrizione del Natale delle tue memorie. Complimenti, caro Pasquale, per la tenerezza con cui hai saputo rievocare luoghi, fatti e persone di un passato che ancora echeggia nel cuore come un patrimonio inestimabile di opere e intenti.

  4. Caro Pasquale, i tuoi ricordi sono molto simili a quelli di tutti coloro che furono bambini nel primo dopoguerra. L’Italia usciva abbastanza malconcia dal secondo conflitto mondiale e nella maggioranza delle famiglie ci si arrangiava per risparmiare. Anch’io ho fatto il presepe utilizzando, per il fondale, la carta blu che serviva ad avvolgere la pasta e, per la stella cometa, la carta stagnola. Uno specchio faceva da lago e il muschio era preso dalla legna da ardere. Questa veniva dalla Toscana ed era perlopiù castagno non molto buono neanche per il fuoco. Tuttavia alimentava la “cucina economica” che, per molte famiglie, era l’unica fonte di riscaldamento essendo i termosifoni appannaggio solo delle case delle persone abbienti: qualcuno possedeva anche le grosse stufe Becchi in terracotta.
    La cucina economica serviva anche a cuocere le vivande e per una riserva di acqua calda nella vaschetta. Per Natale e per le altre Feste comandate si mangiava il pollo che era un genere di lusso non esistendo ancora gli allevamenti intensivi. Negli altri giorni si consumava carne di bassa macelleria. Del maiale tutto compreso il sanguinaccio, il piede e il codino, poi la testina di vitello, le tettine, perfino le zampe di gallina per il brodo e le deliziose animelle e cervella che ancora rimpiango. Niente andava sprecato.
    La stufa poi produceva la cenere, elemento indispensabile per il bucato. La biancheria, già lavata con spazzola e sapone, veniva messa in un recipiente a candeggiare coperta con un telo su cui si versava cenere e acqua bollente – il così detto ranno – e lasciata così per una notte. In modo quasi analogo si faceva la lisciva.
    Allora i detersivi erano molto embrionali basati soprattutto su soda e scaglie di sapone. I piatti si lavavano con l’acqua della pasta.
    Poi si incominciò a fare uso di prodotti più sofisticati e iniziarono ad apparire le prime lavatrici che erano americane e piuttosto laboriose in quanto dotate di due vasche, una per il prelavaggio e l’altra per il lavaggio.
    Alla fine degli anni sessanta la lavatrice era in possesso della maggior parte degli italiani. Nelle campagne, però, dove molto spesso non c’era ancora né acqua né luce, per non rimanere indietro usavano le lavatrici a manovella…
    Altri tempi: come ho detto ci si arrangiava ma era proprio quell’arrangiarsi a darci grande soddisfazione.

    1. Per il tuo interessante contributo
      e il tuo indiscutibile fervore,
      mia cara Carla, un grazie t’è dovuto
      arrotondato in pienezza di cuore.
      Ma i tuoi consigli non sono d’aiuto
      a sud della tua Emilia. Altro è il sentore
      che alle papille sfrigola già arguto
      per noi mediterranei: lo stupore
      d’un grato roccocò o di un pennuto
      volatile di passo o, più, il sapore
      d’un allettante coniglio polputo
      che rosola in tegame e che un odore
      intenso manda a chi ha fame e buon fiuto.

      Qui, cara Carla, mangiare è un piacere.
      Te lo conferma un sazio Balestriere.

      1. E caro il mio Pasquale, ho ben capito
        che a te interessa solamente l’epa
        e di ingozzarsi finché non si crepa.
        E non temere che “l’Emilia grassa”
        a il mangiare non batta la grancassa.
        Zamponi, cotechini e la salama
        soddisfan del palato ogni qual brama
        e i dolci pampepato e certosino
        il pranzo poi concludono di fino.
        E infine tortellini e cappelletti
        e anolini e altre paste ripiene
        i mezzogiorni allietano e le cene.
        Ma adesso poco si prepara in casa
        preferendo -e questo è cosa ria-
        perfino il brodo di rosticceria.
        Invece io ho voluto ricordare
        quello che si faceva in tutt’Italia
        e che è sparito ed era gran fatica
        per rendere onore a chi a grata vita
        ci incamminò coi propri sacrifici.

        1. All’epa il giusto peso ho sempre dato
          e nulla temo dell’Emilia grassa
          in fatto di sapori. Hai mai guardato
          a ciò che offre Napoli alla massa
          dei buongustai, se parti dal pescato
          (orate, calamari e, nella nassa,

          scorfani, polpi, gronghi e poi murene;
          e ancora cozze, cefali e branzini)
          e approdi ai roccocò e a belle cene,
          con mustacciuoli e susamielli e fini
          cassate, e struffoli, insomma a ogni bene
          che questa nostra terra di giardini

          e d’orti e questo mare generoso
          ancor ci danno? E infine voglio dirti
          che ogni ricordo per quanto corroso
          dal tempo è personale e può ferirti
          sentire il tuo ricordo messo a sposo
          d’altre diverse memorie. Ma gl’irti

          pensieri già cedo e inver mi riposo
          e brindo all’amicizia, radïoso.

          1. Caro Pasquale, non voglio far con te
            la guerra regionale dei sapori:
            ho detto solo quelli che gli onori
            – e lo ripeto questo a tutto tondo –
            avuto han di attraversare il mondo.
            I tuoi ricordi inver non mi feriscono
            appartenendo noi a diverse classi
            – e questo non per fare gli smargiassi –
            che niente hanno in comune tra di loro,
            la mia di impiegati, la tua di contadini
            e non per questo non degni dell’alloro
            che la testa circonda a chi lavora.
            Io la campagna l’ho solo osservata
            quando il treno attraversa la scarpata.
            Sai che ti dico allor tra il lusco e il brusco?
            Brindo con te col rosso del lambrusco.

  5. Con la sua prosa piana e distesa, disseminata di dettagli illuminanti, recuperando le memorie ancora vivide di Natali ormai lontani, Pasquale ha riproposto un’epoca, un mondo,un ambiente, restituendone tutte le valenze affettive.
    I frequenti richiami dialettali rendono ancor più viva e realistica la narrazione.
    Lo scrittore infine non tralascia di dire cosa sia rimasto oggi del Natale di un tempo, quasi a voler rimarcare che nulla va del tutto perduto.
    Un racconto appassionato e accattivante, ma sobrio, senza enfasi gratuite, e al contempo scritto col cuore.

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